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"Ciò che io posso definire non può realmente pungermi. La impossibilità di definire è un buon sintomo di turbamento." Così, Barthes, in "La camera bianca", dà una delle sue definizioni al legame tra fotografo e fotografia. In questo libro, però, Dino Morri, coadiuvato da Renzo Semprini Cesari, sembra suggerirci il contrario. Queste sono foto di persone? "Ogni immagine altrui è una parte di autoritratto". Siamo sicuri che non siano tutte, frammenti del fotografo? E conseguentemente, che non siano nostri frammenti? Dino Morri e Renzo Semprini Cesari, con queste immagini e con queste parole, non creano microcosmi altrui: non definiscono, mostrano. E queste immagini, talvolta poetiche, ma mai prive di una durezza che Beniamin chiamava esistenziale, e spesso violente, ma senza mai essere avvolte di umanità, parlano di noi. Un'opera, per definirsi artistica, deve mostrarci, rivelarci e rivelare una parte nascosta. Deve essere uno squarcio al realismo costruito negli anni della nostra vita per farci vedere davvero quello che siamo. E in queste immagini e in queste parole è difficile vederci ma è possibile ritrovarci.
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